La storia del riso nel Vercellese




L’origine del riso risale a circa 10.000 anni fa e ha come centro di differenziazione le pendici dell’Himalaya: da lì le piante si sono spostate a nord e a sud con le migrazioni dell’uomo. La civiltà occidentale ha conosciuto il riso probabilmente grazie alle spedizioni di Alessandro Magno che nel 324 a.C. si spinse fino in India. Dagli scritti degli storiografi greci, discepoli di Aristotele, risulta chiaro che il riso era già coltivato in alcune aree del Medio Oriente, ma non ci sono tracce in Grecia e nel resto del Mediterraneo. Anche i Romani non ne introdussero la coltivazione, ma ne conoscevano gli usi medicali, in particolare per curare problemi intestinali, digestivi e per le infezioni generiche. Fu dopo l’invasione della Spagna da parte degli Arabi e a seguito della loro dominazione che il riso fu conosciuto e coltivato in Europa. Approdò in Italia attraverso la Sicilia e proseguì il suo percorso nei secoli successivi verso il Nord Italia, passando attraverso la Calabria (dove ancora oggi si coltiva attorno a Sibari), la Campania, l’Abruzzo e la Toscana.
I primi canali risalgono al Basso Medioevo e costituiscono le prime infrastrutture per avviare, in seguito, la coltura del riso. Il riso arriva stabilmente in Italia e nel Vercellese soltanto nel Rinascimento, seguendo le vie tortuose e lente dei contatti culturali tra i popoli.
L’inizio della risicoltura in Italia avvenne per opera dei monaci Cistercensi provenienti dalla Borgogna. Nel 1123 fondarono l’Abbazia di Santa Maria di Lucedio nei pressi di Vercelli, bonificando la zona circostante a Nord del Monferrato. L’appellativo “Grange” (dal latino granicum, deposito) deriva dalle aziende agricole che ruotavano intorno all’abbazia. Dal 1400 i monaci introdussero in Italia la coltivazione del riso, ancora utilizzato esclusivamente a scopo medicale, come testimoniano alcuni documenti rinvenuti all’Ospedale Maggiore di Vercelli nella stessa epoca. La vera svolta nella coltivazione del riso avvenne nel XV secolo, grazie agli studi in ingegneria idraulica agraria di Leonardo Da Vinci, alla corte di Ludovico il Moro, che permisero la gestione dell’irrigazione, realizzando le prime invenzioni per il sollevamento delle acque. La testimonianza della risicoltura nel Ducato di Milano è inoltre suffragata da una coppia di documenti storici, due lettere ducali di Galeazzo Maria Sforza, scritte a Villanova di Cassolnovo, vicino a Vigevano, il 27 e 28 Settembre 1475, con il permesso di esportare 12 sacchi di riso da destinare al Duca di Ferrara, Ercole I Marchese d’Este. Circa dello stesso periodo sono alcuni documenti che attestano la diffusione della risicoltura anche nel Vercellese. A Larizzate, alle porte di Vercelli, con terre di proprietà dell’Ospedale Maggiore, vi fu una controversia nel 1493 per il mancato riconoscimento delle opere di miglioramento apportate dagli affittuari, tra cui una “pista del riso”, ovvero una riseria. Questo scritto chiarisce come non solo la coltivazione del riso fosse una pratica diffusa e consolidata, ma anche come le cascine si fossero man mano dotate di macchine per la raffinazione.
Piano piano, anche le aree intorno a Cigliano, Tronzano e Santhià incominciano a essere menzionate tra quelle più indicate per la coltivazione e addirittura “fertilissimi” iniziarono ad essere definiti (grazie al riso) “i campi intorno al Po e da San Germano sino alla Sesia”. Così, dal Cinquecento, mentre si diffonde in Lomellina, il riso si fa largo anche nel Vercellese.
Nel Seicento è già una produzione “tipica”. Nel 1635, monsignor Francesco Agostino della Chiesa, nella sua “Relazione sullo stato presente del Piemonte”, mette già in luce la vocazione risicola di questa porzione di territorio.
La coltura recentemente introdotta offre nuove opportunità di lavoro, tanto che fa affluire quantità crescenti di lavoratori, originari della montagna o delle terre più misere, che raggiungono le pianure alla ricerca di un impiego in risaia. Nel XVIII secolo i sovrani sabaudi promuovono la coltura che, però, viene anche osteggiata a causa della fama di insalubrità attribuita alla risaia. Gli archivi storici sono ricchi di leggi promulgate per vietare la coltivazione del riso, come attesta il documento firmato a Vercelli, nel 1571, dal Duca Carlo Emanuele di Savoia. Il problema è far convivere un prodotto sempre più redditizio con la necessità di coltivarlo in mezzo all’acqua ferma, considerata ricettacolo di malaria.
Sappiamo comunque che, intorno agli anni cinquanta del Settecento, quasi un quarto del territorio piemontese coltivato a riso si trova nel Vercellese. Del resto, il Settecento è un’epoca di incremento delle colture, della produzione e della rete di canali, ma, come il secolo precedente, non manca di essere tragicamente segnata dalle guerre. Per questo, tra gli anni novanta del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, con le revisione catastale promossa dal governo francese nel 1809, la superficie di terreni coperti da risaie risulta calata da circa il 25% ad un misero 8%.
Della necessità di promuovere la risicoltura parlano eminenti personaggi dell’epoca.
Camillo Benso, conte di Cavour, ricoprì il ruolo di Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno di Sardegna dal 1852 al 1861. Nello stesso 1861, con la proclamazione del Regno d’Italia, divenne il primo Presidente del Consiglio del nuovo Stato. Cavour dedicò molto impegno all’agricoltura: nel 1843 fondò l’Associazione Agraria di Torino che aveva il compito di migliorare le condizioni dell'agricoltura e di favorire la diffusione delle tecniche agrarie e l'accrescimento culturale dei coltivatori. Nel 1853 fondò l’Associazione di Irrigazione Ovest Sesia, il primo consorzio irriguo privato d’Italia, ancora oggi impegnato nella gestione del territorio e nella distribuzione delle acque ad Ovest del fiume Sesia. Sono noti anche i suoi studi sull’allevamento, sulla concimazione e sulle macchine agricole che sperimentò direttamente nella sua azienda agricola a Leri, sulla strada delle Grange, con forte miglioramento delle produzioni di latte, frumento, mais e riso. La sua figura è particolarmente legata al riso per due importanti avvenimenti: le lotte risorgimentali per l’Unità d’Italia e il canale che prende il suo nome.
Nel 1859, durante la seconda Guerra d’Indipendenza, l’esercito austriaco stava avanzando verso il Piemonte: il governo piemontese, presieduto da Camillo Cavour, incaricò l’ingegner Carlo Noè di predisporre un piano di allagamento del territorio, sfruttando tutto il sistema idrico già gestito dall’Associazione d’Irrigazione dell’Agro all’Ovest del Sesia. L'allagamento, facilitato dalla già avvenuta sommersione delle risaie, iniziò il mattino del 25 aprile e durò fino al 29, impedendo all’invasione austriaca di estendersi fino a Torino, allora capitale. Altrettanto importante fu la progettazione del Canale Cavour, il più lungo canale artificiale mai costruito fino ad allora. L’idea iniziale fu del geometra agrimensore Francesco Rossi che per 5 anni a partire dal 1842 attraversò la pianura padana da Chivasso fino al fiume Sesia per dimostrare una sua geniale intuizione: pensava fosse possibile portare l’acqua controcorrente verso Nord, visto che i fiumi scorrevano a Sud dalle Alpi verso il Po. Ma l’Italia della metà del XIX secolo era in preda alle priorità belliche risorgimentali che portarono all’Unità ed il progetto fu inizialmente abbandonato e solo successivamente ripreso e modificato dall’Ing. Carlo Noé. Nel 1861, pochi mesi dopo aver festeggiato l’unificazione del Regno d’Italia, Camillo Benso conte di Cavour, morì. A lui fu dedicata l’opera che aveva tanto voluto per il bene del Piemonte e delle sue terre. Il Canale Cavour fu costruito in poco più di mille giorni, cioè in 2 anni e 10 mesi, dal 1° giugno 1863 al 12 aprile 1866, tutto e solo con braccia e badili.
La costruzione del Canale Cavour rappresenta la svolta decisiva per la produzione risicola vercellese, tra il 1869 e il 1875, con gli investimenti che aumentano in modo sensibile.
Agli inizi del Novecento la risicoltura costituisce l’attività agricola nettamente maggioritaria nel circondario vercellese, dove ben 44 centri dei 55 che ne fanno parte coltivano quasi esclusivamente riso. Le risaie sono ancora coltivate “a vicenda”, cioè a rotazione; soltanto in piccola parte il riso cresce in modo “stabile”, cioè senza rotazione; questa seconda forma di coltivazione è diffusa soprattutto in centri come Costanzana, Rovasenda e Palazzolo, ma ancor più a Desana, Asigliano, Rive, Stroppiana, dove costituisce la modalità prevalente. E da qui diventa, via via, la tecnica più diffusa. In questo modo, nel corso del Novecento Vercelli diventa la capitale italiana del riso, dove quasi tutto ruota intorno all’economia di questo cereale. Qui si selezionano le prime varietà italiane e qui, nel 1908, viene insediata la Stazione Sperimentale di Risicoltura, da cui parte l’impulso per la creazione (a partire dal 1925) di nuove varietà e la sperimentazione di nuove tecniche colturali. A Vercelli nasce la più importante borsa merci per il riso in Europa, dove avvengono le transazioni più voluminose di risone, e qui interviene massicciamente il neonato Ente Nazionale Risi. Fondato nel 1931, svolge attività di assistenza tecnica agli agricoltori, ma anche ricerca scientifica e miglioramento genetico, oltre alle attività politico-istituzionali e di promozione del riso italiano.
Dall’inizio del 900 la risaia vercellese diventa anche un laboratorio sociale. Il trapianto e la monda del riso, oltre che la mietitura, hanno bisogno di molta mano d’opera. Queste attività, fino agli anni Cinquanta del Novecento, portano nella risaia vercellese, dalla tarda primavera, decine di migliaia di persone, in particolare mondine, le lavoratrici stagionali della risaia che tanto hanno ispirato la letteratura e il cinema. La figura della mondina scompare nei primi anni ’60 con l’introduzione dei fitofarmaci e l’affermarsi della meccanizzazione. Oggi, la risicoltura vercellese è un settore in cui convivono tradizione e innovazione, dove la ricerca di nuove tecnologie, nuove tecniche agricole e nuove varietà va a braccetto con la vocazione di Vercelli che è il fulcro del “triangolo risicolo italiano”.
Riso, la nostra risorsa più preziosa.

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